COS’É DAVVERO SUCCESSO A GRIMALDI IL 7 DICEMBRE DEL 1944?
QUEL MARMO CHE GUARDA LA CHIESA
Tutto era come sempre quel mattino a Grimaldi. Il mare non ansimava più delle altre volte e il cielo aveva il broncio
solito di tutti gli inverni. Tutto intorno era pace. I mandarini in fiore con il loro profumo annunciavano, prossime,
le feste di Natale.
Era il 7 dicembre 1944. Il giorno prima le autorità militari tedesche, di stanza a Ventimiglia,
avevano emanato l’ordine di evacuazione. Poche anime erano rimaste in paese e quello stato di disagio accompagnava la
paura di quell’ultima gente ancora ancorata alla propria terra, legata ai risparmi di tutta una vita.
Perché non
fuggirono? A due passi li attendeva la terra di Francia.
L’attesa spasmodica, la paura e la speranza ebbero fine
alle 8,30. Un crepitio di fucili lacerò il silenzio e l’aria tersa di quella piccola comunità. Davanti al muro esterno
dell’Albergo Vittoria, una squadra di tedeschi li aveva ammucchiati come tante pecore, e li aveva massacrati. La barbarie
aveva reciso senza pietà la vita innocente di Giovanna Trovato di due anni, di Rosalba di quattro, e del suo fratellino,
Sergio Pallanca, di sei, e con loro uomini e donne: la mamma della piccola Giovanna, malgrado fosse incinta, e
Alberto Lorenzi (detto Berto de Tacun) con la moglie Battistina, proprietari del piccolo albergo, e tutti gli altri e
Rinaldo Pittaluga, che la sera precedente aveva deciso di rimanere con loro.
I nomi di tutte quelle povere vittime
della guerra sono scolpiti, con i loro sogni, nel marmo che guarda, con gli occhi del martirio, la Chiesa dei Santissimi
Angeli nella piazzetta di Grimaldi Superiore.
La Società Operaia, che in questi giorni si appresta a spegnere con
orgoglio le centoventi candeline della sua esistenza, una immensa torta fatta di generosità, ha inteso cogliere
l’occasione per ricordare i poveri morti dell’Albergo Vittoria e li vuole onorare raccontando la loro storia, il
più possibile vera, lontana dalla retorica.
Procediamo quindi per ordine e invitiamo il lettore ad accompagnarci
con pazienza lungo questo tratto di strada, alla ricerca di una verità che sembra sempre più lontana.
Perché si è
sempre parlato poco dell’eccidio di Grimaldi?
Alcuni sono motivi di natura locale ma, essenzialmente, sono le
stesse ragioni che hanno impedito, per anni, di capire e scoprire i colpevoli di altrettanti massacri perpetrati
durante la guerra nel nostro Paese.
Da ricordare, intanto, l’anno 1944 (cinquant’anni dopo!) perché fu in quei
mesi che chi indagava sul caso Priebke, ebbe la ventura di scoprire il posto dove giacevano 695 fascicoli processuali,
“dimenticati” da decine di anni. Tra quei fascicoli c’era anche una cartella celeste, con il n. 660 e con un titolo:
“Ventimiglia (Imperia)”. Era dedicato all’eccidio di Grimaldi.
Di fronte a quella scoperta qualcuno, in alto,
manifestò un certo stupore, ma si trattava di una squallida messa in scena.
Le gerarchie dello Stato, nonché gli
alti gradi della Magistratura Militare, sapevano che nella seconda metà degli anni ’40 era successo di tutto e che
sull’altare della cosiddetta “ragione di stato” erano state sacrificate le più elementari norme del diritto e
commessi i più inqualificabili soprusi.
Ci riferiamo alla scoperta di quei 695 fascicoli, riguardanti i crimini
nazifascisti, recuperati a Roma, in via degli Acquasparte, dove ha sede il Palazzo Cesi che ospita la Procura generale
militare. Erano stati occultati in un armadio di legno che aveva le ante appoggiate alla parete. L’ingresso era difeso
da un cancelletto di ferro, chiuso a chiave. Molti di quelle ignobili vicende, che avevano caratterizzato quel tragico
periodo erano raccontate nei minimi dettagli: saccheggi, omicidi, stragi e i loro nomi, quelli dei carnefici e quelli
dimenticati delle vittime. Il ritrovamento portò alla luce un grande registro con la sintesi di quella carneficina e
l’elenco di 2274 procedimenti penali, tutti iscritti nel “Ruolo generale dei provvedimenti contro criminali di guerra
tedeschi”.
Quegli scheletri dell’armadio erano lì a significare le esigenze della politica di Stato, 2274 nomi
nascosti, non per la dabbenaggine di qualche appuntato, ma dietro ordini precisi. Bisognava evitare, in quel momento
(un momento che durò lunghi anni), la celebrazione dei processi contro i criminali di guerra tedeschi.
Perché i
più alti gradi della Magistratura Militare accettarono di abdicare al proprio dovere?
L’esclusione dal governo
dei comunisti di Togliatti e dei socialisti di Nenni aveva, di fatto, dilatato e inasprito i contorni della “guerra
fredda”, diventata ormai la strategia politica e militare della nazioni del blocco occidentale. Ad ogni costo
(anche a costo di occultare 695 fascicoli) si doveva evitare di riproporre le condizioni per una “Norimberga
italiana”.
L’imminente fondazione della Repubblica Federale di Germania suggeriva l’opportunità politica di
soprassedere, di dimenticare.
Quando si trattò di estradare in Italia una trentina di ex ufficiali tedeschi,
responsabili in prima persona di quel cruento massacro effettuato nell’isola di Cefalonia, nell’ottobre del 1943,
arrivò puntuale il veto ministeriale. La celebrazione di quel processo avrebbe sicuramente determinato lo sdegno
dell’opinione pubblica e la mobilitazione delle opposizioni di sinistra, frapponendo così seri ostacoli alla
ricostituzione dell’esercito germanico che si apprestava a entrare nell’alleanza atlantica.
Il 14 gennaio 1960
il procuratore generale militare, Enrico Santacroce, decretava l’”archiviazione provvisoria” dei 695 fascicoli per
crimini di guerra, con un provvedimento inaudito (l’ordinamento giuridico italiano infatti non lo prevede).
Se
questi 695 fascicoli sono tornati a galla, dopo essere stati secretati per decine di anni, lo si deve alle indagini
sul caso Priebke. Altri nomi di triste memoria, come quelli di Herbert Kappler e di Walter Reder, processati e
condannati, non sono sufficienti per cancellare una vergogna che la “ragione di stato” non è in grado di assolvere.
Quando saltarono le ante di quel famoso armadio di legno di Palazzo Cesi la Procura Militare ebbe tra le mani
anche il fascicolo di Grimaldi.
La Procura militare di Torino ebbe l’incarico di istruire il processo e quella
è l’unica fonte attendibile per ricostruire una probabile storia che si porterà appresso, per sempre, le ombre
del sospetto delle cose dette e smentite, e il veleno di antichi ricordi.
La scomparsa di tanti testimoni ha
ulteriormente complicato le varie fasi della vicenda.
Il dispositivo della sentenza formulata dal Giudice
Alessandro Benigni, nei confronti del maggiore Hans Geiger e del tenente Heinrich Goering, ultra ottantenni ormai,
porta la data del 15 maggio 2000. L’esito appare sconcertante. I due imputati di “violenza con omicidio contro
privati italiani” non sono stanti condannati per le seguenti ragioni: “non luogo a procedere perché gli elementi
acquisiti dal P.M. risultano insufficienti a provare che gli stessi abbiano commesso il fatto”.
Un fascicolo
riemerso cinquant’anni dopo l’accadimento dei fatti, non poteva che riproporsi logorato dal tempo e privo di ogni
possibile immediatezza. Così le stesse testimonianze apparivano lontane e non concordi con le ultime risultanze.
Condizionato da questo stato di fatto il pubblico ministero, Paolo Scafi, inizia la sua indagine il 29 gennaio
1997. La pattuglia tedesca che irrompe nell’Albergo Vittoria è accompagnata da un certo Egidio Eugeni noto
collaborazionista. I bambini e i grandi vengono fucilati e i loro corpi gettati in una fossa che viene ricoperta
con terra, paglia e rifiuti. Le salme saranno poi riesumate per stabilire le cause della morte.
L’inchiesta
scopre che “non poche persone ebbero modo di vedere la pattuglia tedesca salire sulla Rocca di Grimaldi” ma le
testimonianze sono ancora troppo frammentarie e reticenti.
Un mese dopo la strage, nel gennaio del 1945, il
titolare di una panetteria di via Cavour, in Ventimiglia, tale Giuseppe Viale, riferisce che, alla presenza anche
di un certo Moro, titolare di un negozio di busti in Bordighera, un sergente tedesco aveva asserito di aver ucciso
parecchi “banditi” (così erano definiti i partigiani) per ordine del loro comandante il maggiore Geiger, e tra quei
“banditi” c’erano anche tre bambini e una donna incinta.
Entrando nei particolari aveva inoltre affermato che
avevano ucciso un bambino molto bello e fu ascoltata un’altra teste, la signorina Antonietta De Re, che all’indomani
della strage aveva parlato con un soldato tedesco di nome Karl, il quale, ubriaco, aveva confermato, piangendo, di
aver ucciso “una bambina bionda che sembrava un angelo”, anche lui per ordine del maggiore Geiger e del tenente
Goering.
Nel novembre del ’45 il fratello di una delle vittime, il dott. Alberto Pallanca presenta un esposto
al Comando Alleato della Liguria con il quale, secondo le prove a sua conoscenza, l’Egidio Eugeni, noto nemico
dei Lorenzi i proprietari del “Vittoria”, è da considerare lo stimolatore dell’eccidio. Si accenna anche a una
presunta polizza assicurativa di 50 mila lire riscossa dai Lorenzi per la morte in guerra del loro figlio. Con
la morte di Egidio Eugeni, avvenuta il 19 marzo del 1946, un mese dopo la condanna all’ergastolo della Corte
d’Assise di Sanremo, sparisce per sempre l’imputato – testimone più importante di tutta la vicenda.
Quando
il P.M. cerca di venire in possesso degli atti processuali, è trascorso mezzo secolo, sia la cancelleria del
tribunale di Sanremo che quella del tribunale di Imperia “attestano di non avere alcuna notizia in merito”.
La testimone, la signorina De Re, che al momento del processo viveva a Beaulieu, appare ormai reticente e
la sua ultima testimonianza non collima più con la prima: non è più un solo soldato che le ha confessato quel
massacro, ma più militari tedeschi.
Non è facile tirare le fila perché non si riesce ad individuare il movente
di quella strage così feroce e all’apparenza immotivata.
Chi di quel gruppo aveva garantito i contatti tra
partigiani italiani e partigiani francesi? Qualcuno avanza l’ipotesi che sia il genero dei Lorenzi, Vincenzo
Gino Pallanca, anche lui fucilato.
E se fosse vera questa ipotesi perché l’ordine di evacuazione?
E ancora,
ed è un interrogativo destinato forse a rimanere senza una risposta, perché non se ne sono andati? Quale fu la
vera ragione che inchiodò tutta quella gente a Grimaldi?
Le risultanze processuali prendono atto delle voci
di un tesoro di banconote e di un sacco di marenghi.
L’Eugeni, il complice collaborazionista, si sarebbe
servito di alcuni soldati tedeschi per portare a termine una rapina e non un’operazione militare.
Tra i moventi
torna in ballo la somma incassata per la polizza assicurativa dal figlio dei Lorenzi, proprietari dell’albergo,
tenente dell’Aeronautica, morto durante il bombardamento di Tobruk.
La Stampa, in una sua corrispondenza del
30 settembre 1998, chiama in causa, sia pure in via ipotetica, la Curia di Ventimiglia, a cui avrebbero affidato,
in custodia “un baule pieno d’oro”. È una ipotesi suggerita da lontani parenti dei coniugi Lorenzi, di cui si
conoscono anche i nomi.
Dopo i giorni della Liberazione trovò accoglienza l’ipotesi che i fascisti del posto
per venire in possesso del malloppo avessero commissionato la rapina e il massacro.
Chi ha sparato davanti
il “Vittoria”? Alcuni sostengono siano stati gli uomini di un battaglione di disciplina, composto da fior di
delinquenti comuni, impiegati alla bisogna per le operazioni più sporche.
Non c’è altro. Ora il processo di
Torino è rimbalzato al tribunale di Verona, ma l’incalzare del tempo non potrà aiutare chi cerca la verità.
La gente di Grimaldi, trucidata in quel lontano dicembre, rimarrà rassegnata con i suoi nomi e i suoi sogni
scolpiti su quel marmo che guarda la Chiesa e il rumore del mare continuerà a coprire le voce di quelle lontane
tragiche ore.