|
|
Uomo politico, scrittore in latino e in volgare, diede a questa lingua nascente una enorme poliedricità espressiva. La sua Divina Commedia è indubitabilmente uno dei grandi capolavori della letteratura mondiale, ma per gli italiani è anche la fucina della loro lingua, da cui sono uscite le più potenti raffigurazioni della realtà e dell'immaginazione. I versi (Purgatorio V 67-84) raccontano in prima persona la scena della morte di Jacopo del Cassero (Fano, Pu 1260-Oriago, Ve 1298), magistrato guelfo che Dante conobbe quando partecipò alla battaglia di Campaldino contro i ghibellini di Arezzo. Come podestà di Bologna nel 1296-97 si era inimicato il signore di Ferrara Azzo VIII d'Este che aveva mire espansionistiche sulla città vicina; quando l'anno dopo Jacopo venne chiamato a Milano come podestà preferì imbarcarsi per Venezia e di lì raggiungere la città lombarda, ad evitare il territorio ostile; ma ciò non servì a salvarlo: sicari degli estensi lo raggiunsero in una palude presso Mira e lo trucidarono. Nel poema dantesco il personaggio, ormai anima del Purgatorio, racconta l'episodio descrivendo fra il rammarico e lo stupore il suo dissanguamento fatale. |
|
|
|
|
|
|
|
|
(Testo)
OND'IO, CHE SOLO, INNANZI AGLI ALTRI, PARLO, TI PREGO, SE MAI VEDI QUEL PAESE CHE SIEDE TRA ROMAGNA E QUEL DI CARLO, CHE TU MI SIE DE' TUOI PRIEGHI CORTESE IN FANO SÌ, CHE BEN PER ME S’ADORI, PERCH’IO POSSA PURGAR LE GRAVI OFFESE. QUINDI FU IO, MA LI PROFONDI FORI, OND’USCÌ ’L SANGUE, IN SUL QUAL IO SEDEA, FATTI MI FURO IN GREMBO AGLI ANTENORI, LÀ DOV’IO PIÙ SICURO ESSER CREDEA: QUEL DA ESTI IL FE' FAR, CHE M’AVEA IN IRA ASSAI PIÙ LÀ CHE DRITTO NON VOLEA. MA S’IO FOSSI FUGGITO IN VER LA MIRA QUAND'IO FUI SOVRAGGIUNTO AD ORIACO, ANCOR SAREI DI LÀ DOVE SI SPIRA. CORSI AL PALUDE, E LE CANNUCCE E IL BRACO M’IMPIGLIAR SÌ, CH’IO CADDI, E LÌ VID’IO DELLE MIE VENE FARSI IN TERRA LACO. |
foto Lucci
|
|
|
|
|
|
|
|
|